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L’albanese che a Parma sfida Pizzarotti e il Pd

Nella città-laboratorio di cui vorrebbe diventare sindaco, Gentian Alimadhi arrivò vent’anni fa da clandestino.

Ora fa l’avvocato. E rischia di vincere le primarie del centrosinistra.

«Qui ho fatto il cameriere…». Ci portano i caffè mentre Gentian Alimadhi gira uno sguardo fiero sugli stucchi del bistrot del Teatro Regio, cuore e monumento della parmigianità. Se volete, potete leggere quel che segue come una storia di riscatto: il clandestino albanese arrivato sui barconi, che ha fatto successo e ora vuole diventare sindaco. Ma vi perdete il bello. Perché tutto questo accade a Parma, la piccola capitale irrequieta e profetica della politica italiana. Qui tutto accade un po’ prima. Il primo crollo dell’Emilia rossa, il primo sindaco “civico” (Elvio Ubaldi eletto nel 1998), il primo sindaco Cinquestelle (Federico Pizzarotti, in carica, che è anche il primo grande eretico grillino).

Che sia l’ora del primo sindaco immigrato?

«Ma tu pensi che ti voteranno solo perché sei un albanese?», ha cercato di dissuaderlo un amico quando Gentian ha annunciato, poche settimane fa, la sua intenzione di presentarsi alle primarie del Pd (dopo molti tentennamenti si vota il 5 marzo). «No, ho risposto, ma neppure mi aspetto di essere penalizzato per questo». Ha un bel viso mediterraneo questo avvocato ironico e giovanile, 44 anni ma gliene sconti volentieri dieci. «L’altra sera in un centro sociale per anziani», riferisce il suo braccio destro Massimo Pinardi, «gli dicevano “oh, sei più bello di Pizzarotti!”». Conta anche questo.

Ma essere albanese, quanto conta?

Solo chi ha una quarantina d’anni forse lo ricorda, ma erano i “brutti sporchi cattivi” del primo panico migratorio, all’inizio degli anni Novanta. Albanesi incalliti, satireggiò un titolo del Manifesto. «E io ero proprio incallito…», ride Gentian. Aveva vent’anni quando scelse l’Italia. «Non per fame. Non ero povero. Mi ero iscritto ad architettura, a Tirana. Avrei avuto un futuro nel mio Paese. Gli amici mi sconsigliavano. I miei genitori piansero quando dissi che volevo imbarcarmi». Perché lo fece, allora? «Sognavo di meglio di un Paese piagato da una dittatura. E poi l’Italia, vista in televisione, era un paradiso, la terra delle opportunità». Il 15 maggio del ’93 si infilò nella stiva di un peschereccio, a Durazzo, destinazione Brindisi. Il giorno dopo era su un treno per Parma, dove già viveva il fratello, sbarcato con la possente ondata di due anni prima. «Ho teso una mano e Parma me l’ha afferrata», dice, un po’ per lusinga un po’ perché ci crede. «Poi sono rimasto qui, potevo andare in America da mia sorella, ma ho scelto Parma. Vuole più bene a una città chi la sceglie o chi ci è nato? Io non mi candido a nome degli immigrati. Mi candido in nome di Parma».

Certo che non l’ha avuta gratis, Parma.

Tre anni da clandestino, inscatolare scarpe per sopravvivere, dormire dentro un container con le pareti di metallo che «sudavano d’estate e d’inverno». I vestiti presi alla Caritas: «Ricordo una tuta fucsia con la scritta Armani, neanche sapevo chi era, ma la gente mormorava: guarda questo albanese di merda come se la tira». Non era l’Italia della tivù, «io che pensavo alla Carrà e alle vallette di Smaila rimasi deluso dalle ragazze italiane», ride. Poi la sanatoria, e il ritorno ai libri, «volevo riscrivermi ad architettura ma a Parma non c’è, allora su due piedi ho scelto legge». Dopo altri dieci anni, nel 2010, è arrivata la cittadinanza italiana. Ora ha uno studio da avvocato: pratiche di immigrazione ma non solo. Il matrimonio, due figli. È la storia di molti albanesi, fecero tremare l’Italia ed oggi sembrano scomparsi dai radar della xenofobia nazionale. «Gli albanesi ci sono ancora, per il bene e per il male», spiega davanti a un piatto di anolini in brodo, in una delle trattorie più tipiche della città. «Lo sa che qui il cuoco è albanese? Non importa più a nessuno. Sono arrivati altri cattivissimi di turno». Qualcuno a Parma ha notato la sua storia di successo, interviste, una comparsa in tivù da Magalli e a sorpresa, sei anni fa, un premio, il Sant’Ilario: piccolo Nobel di campanile (nel medagliere parmigiani celebri come Pietro Barilla, Alberto Bevilacqua, Bernardo Bertolucci).

Si sarà mica montato la testa?

«Questa corsa la faccio da cittadino di Parma.In Italia ho passato gli anni più importanti della mia vita, qui ho i mie affetti. Ora provo a restituire qualcosa». Come la prenderà la città, è tutto da vedere. Certo, Parma non ha mai esitato di fronte alle brusche svolte. Città proustiana e strana. Orgogli granducali ancora vivi perfino nella erre blesa del dialetto, nella pretesa di autogoverno geloso. Città paradossale, combina una straordinaria stabilità e continuità del potere vero (il suo Gotha imprenditoriale, che ha resistito agli scossoni di Tangentopoli) con una proteiforme irrequietezza delle formule politiche: nel giro di qualche decennio qui hanno governato monocolori e pentapartiti, rossi e bianchi, centrodestra e centrosinistra, Ulivo e Polo, liste civiche e da ultimi i Cinquestelle, senza che gli interessi “forti” fossero mai disturbati. In questo gattopardesco kamasutra chi si stupirebbe di un sindaco ex immigrato clandestino?

Il Pd, forse. Inutile negare, non l’hanno presa bene.

Data tacitamente per già persa la gara (Pizzarotti sta per decidere la sua ricandidatura in veste di sindaco civico, e tutto lascia pensare che ce la farà), la rosa delle altre candidature alle primarie (quattro in tutto) rispecchia più il posizionamento delle alleanze interne che una voglia di vincere. Vicino politicamente alle posizioni moderate di Libertà Eguale, Alimadhi sembra sapere poco del partito a cui chiede l’investitura. Bersaniani, renziani…? «Mi informerò meglio…», glissa.

Farà la sua gara in autonomia

Navigando abilmente fra gli scogli taglienti. Di che religione è, Gentian?: «Ho scoperto di essere di tradizione bektashi, confraternita islamica sunnita di ispirazione sufista, mistica. Ma per i miei figli voglio presepi, non le bandiere nere dei califfi». Ma è sicuro di aver scelto il momento giusto per questa avventura, Alimadhi? «Se per i nuovi italiani è il momento sbagliato, allora è il momento giusto».

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